La storia di Onofrio, tra povertà è dignità

10 Gennaio 2014

di Simone Merli (Capogruppo PD Comune di Ferrara – Tratto da “La Nuova Ferrara”)

merli

Onofrio aveva poco più di cinquant’anni, veniva da Niscemi (“la città del famoso carciofo”, diceva, “come fai a non riconoscerla!?”), Sicilia. Non so come fosse arrivato a Ferrara.

Quali strade nella vita avesse percorso per arrivare fino qui, a pochi passi da noi. Ma qualunque fosse stata la strada, qui finì: al dormitorio di Villa Albertina, via Modena, Ferrara. Per diversi giorni, poco prima dell’ orario di chiusura della porta, arrivava, attraversava l’ingresso ed accelerava il passo per non essere fermato e raggiungere la sua camera già occupata da diverse persone: alcune italiane, altre rumene, altre moldave, altre ancora tunisine.

Non si fermava mai, evitava il contatto, non so perchè. Ce lo chiedevamo ma forse non eravamo attenti fino in fondo, troppi erano i problemi da gestire. Non era disinteresse, bensì la sola incapacità di tenere tutto unito, di rispondere ad ogni richiesta.

Ma questa storia un giorno finì e ne iniziò un’altra.

Una sera come tante Onofrio entrò, accelerò il passo per evitare di doversi fermare a parlare con qualcuno di noi, e d’un tratto sentii quel passo interrompersi, indietreggiare, e lo vidi affacciarsi alla porta: “Simo’, che ce l’hai ’na singola?”.

Lì per lì pensai che stesse scherzando, che quell’affermazione fosse una battuta, ma capii in fretta che non si trattava di nulla di tutto ciò. Onofrio sapeva dov’ era il suo letto, come raggiungerlo, ma non si era mai guardato attorno, quindi non poteva sapere che lo spazio era stretto, che quelle quattro mura ospitavano decine e decine di persone e che ogni minimo spazio era per noi opportunità di ricavo di un rifugio per chi ne avesse avuto bisogno.

Ma perchè Onofrio non si era guardato attorno? Perchè Onofrio non capiva che quel letto che occupava era già un privilegio rispetto a coloro, tanti, troppi, che di quel letto e quel tetto non potevano usufruire? Forse perchè riconoscere questo significava riconoscersi come tutti coloro che reputava diversi o forse inferiori. Significava essere un bisognoso come tanti. E in questa condizione non riconosceva la sua vita o il sogno che per essa aveva avuto.

Ma il nostro rapporto e la nostra amicizia iniziò proprio così, da una domanda inaspettata, da un passo interrotto dalla richiesta che necessariamente doveva farmi.

Mi disse che non aveva mai festeggiato il suo compleanno, che era nato nel mese di marzo ma che nessuno nella sua famiglia aveva mai trovato il tempo di dedicargli una festa. Mi segnai sul calendario la data, la incrociai con la fotocopia della sua carta d’identità per verificarne la veridicità ed iniziai ad organizzargli la festa: quella che non aveva mai vissuto. Pensammo in diversi a cosa regalargli, senza però stupidamente raccontarci cosa avevamo pensato. Notammo che girava con in tasca una sveglia, quelle da comodino, e pensammo: “gli regaliamo un bell’orologio”!

Così facemmo: tutti gli regalammo un orologio, così da zero che ne possedeva, troppi ne aveva, non bastavano due polsi a raccoglierli! Onofrio rideva, noi tanto, tantissimo, e questo ci bastò: lui era felice, noi anche. Che serviva di più? Onofrio morì pochi anni dopo, il suo funerale non venne fatto qui perché la famiglia (della quale ci parlava raramente e all’apparenza senza alcun coinvolgimento emotivo e che nessuno di noi aveva mai incontrato) preferì seppellirlo nella loro terra, nella sua terra, Niscemi, la terra del carciofo, ora sì che lo so. Non so se fosse quella la sua volontà, so che quella fu la sua fine. “Si tratta di volti e di nomi da prendere uno ad uno”, scrive don Domenico. Esattamente così: si possono concretizzare interventi emer- genziali che riguardino tutti, ma non si possono evitare le singole storie, i singoli bisogni. La politica che organizza eventi contro la povertà, mostra tutti i limiti dello scarso contatto con la realtà.

Serve altro. Serve sapere che non esistono solo emergenze ma esistono anche e soprattutto, bisogni strutturali. Serve sapere che i fondi devono essere stanziati e rendicontati fino in fondo, e che in periodo di diffusa difficoltà economica, ogni centesimo non speso male equivale ad un euro speso bene. E forse servirebbe anche ri- cordare che questi non sono poveri senza un nome, un cognome, una vita vissuta, un sogno sognato. Sono persone povere.

E se non serviamo a costoro, che senso ha passar da qui?


Condividi: