“Ferrara e il suo territorio oltre la crisi”: la relazione di Luigi Marattin

23 Marzo 2010

La relazione di Luigi Marattin, responsabile economia PD Ferrara4318_102870415497_675835497_3134170_4685103_n

Dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, con la schiettezza, il coraggio e l’onesta intellettuale che lo contraddistingueva, John Maynard Keynes rivolse un’accusa ai leader politici dell’epoca. “State commettendo il più grande degli errori”, disse. “E quale sarà mai?”, gli chiesero tutti, infastiditi dalla superbia di quell’allora semi-sconosciuto economista inglese. “State affrontando i problemi del mondo del dopoguerra, con le stesse identiche opinioni e idee di prima della guerra. E ne pagherete presto le conseguenze”.

Abbiamo scelto di partire da qui, per presentare quest’iniziativa e quelle che la seguiranno da qui fino all’inizio dell’estate. Fatte le debite proporzioni tra la tragedia di una guerra e una crisi economica (per quanto drammatica come quella attuale), le lucide di parole di Keynes potrebbero tranquillamente essere ripetute in queste settimane, rivolte a imprenditori, sindacalisti, e politici di ogni schieramento: state – stiamo – attenti: rischiamo di affrontare i problemi della Ferrara post-crisi con le stesse identiche opinioni, atteggiamenti, tendenze e idee di prima della crisi. Il fatto nuovo – che probabilmente aiuta a riconciliare queste prime parole con il clima di fine campagna elettorale – è che tale pericolo è indipendente da quanto buone siano state le opinioni, gli atteggiamenti, le tendenze e le idee precedenti alla crisi. Il fatto che fossero quelle giuste prima della tempesta, non è purtroppo sufficiente a far sì che lo siano automaticamente anche dopo….


Partiamo da qui, dunque, per iniziare quel percorso di approfondimento ed elaborazione di cui parlava il Segretario nel suo saluto iniziale. Un percorso caratterizzato dal pieno coinvolgimento, ci auguriamo, di coloro che fanno e vivono la realtà economica territoriale, e dall’elaborazione di idee e prospettive che solo le istituzioni locali, poi, possono essere chiamate ad attuare nella pienezza della loro autonomia e in forza del mandato ricevuto dagli elettori. Intendiamo così, riprendendo ancora una volta le parole di Calvano, definire una chiara e non ambigua relazione tra il partito e le istituzioni, basata sul contributo di discussione, elaborazione e aggregazione del consenso da parte del primo, e sull’azione vera e proprio di governo della cosa pubblica da parte delle seconde.

Come già accennato, la nostra analisi parte dalla convinzione che la crisi rappresenti un vero e proprio spartiacque. Tra qualche decennio si riconoscerà probabilmente un “prima” e un “dopo”. La tempesta iniziata nei mercati finanziari nell’agosto del 2007, e trasmessa all’economia reale nell’autunno dell’anno successivo dopo il fallimento di Lehman Brothers, non è stata un tradizionale (e massiccio) crollo congiunturale, perfettamente fisiologico all’interno delle dinamiche del ciclo economico. La prima contrazione del Pil mondiale e del commercio mondiale dal 1945, e tutti i drammatici dati che ormai conosciamo bene (a partire dai 6 punti percentuali di reddito persi dall’Italia nel biennio) rappresentano il segnale di qualcosa di più profondo. Non certo quello che affermano – o forse sognano – coloro che guardano a questo secolo con gli occhi di quello scorso, o di quello ancora precedente. Piuttosto, siamo in presenza di un mutamento strutturale nelle dinamiche del commercio e della produzione globali. Niente di nuovo: è almeno un decennio che ci ripetiamo che lo scenario globale affermatosi negli Anni Novanta impone almeno due cose: una ridefinizione della divisione internazionale del lavoro e della produzione e una migliore regolazione delle dinamiche e dei mercati globali. La crisi ci ha brutalmente ricordato cosa succede se non lo facciamo. Non a caso, la scintilla è venuta esattamente da quei due fronti: gli squilibri globali dovuti ad una incompleta definizione di una nuova articolazione produttiva tra paesi emergenti e paesi maturi hanno generato quell’anomala abbondanza di liquidità che ha inondato i mercati occidentali alla ricerca del rendimento più alto, e che ha alimentato una serie di bolle speculative dalla fine degli Anni Novanta in poi. E la incompleta (o sbagliata) regolazione finanziaria ha fornito l’occasione – una scorretta gestione del rischio aggregato – per far scoccare la scintilla del disastro.

Ora, mentre ci interroghiamo sulla stabilità strutturale delle flebile ripresa (non sappiamo quanto drogata dal più massiccio stimolo di politica economica nella storia umana), dobbiamo fare i conti col mutamento strutturale che il post-crisi impone. Anche a Ferrara e al suo territorio. Se ci pensate, in questa lunga premessa abbiamo rappresentato la stessa situazione che capita quando, ad esempio, ci viene la febbre. Essa non è la causa, ma solo il sintomo della malattia. La malattia può essere una banale influenza, o un qualcosa che ci impone di cambiare strutturalmente le nostre abitudini di vita. Nel primo caso possiamo ricominciare a vivere come facevamo prima, nel secondo no; dobbiamo ripensare le nostre abitudini, anche quelle che ci sembravano sane (e che probabilmente lo erano), ma che ora non possiamo più permetterci. E magari possiamo anche cogliere l’occasione per eliminare qualche brutta abitudine, come quella di fumare. Alla fine, se il processo viene governato con saggezza, la nostra qualità della vita sarà migliore di prima.

Con questa premessa, in questo primo appuntamento vogliamo concentrarci soprattutto su due fronti che riteniamo funzionali al quadro sopra esposto.

Il primo è quello di un potenziamento, ma anche ripensamento, del sistema della formazione e riqualificazione professionale. Se l’analisi precedente è condivisa, infatti, questo si traduce in una semplice, per quanto amara, constatazione: nei settori tradizionali, che costituiscono una parte sostanziale dell’economia ferrarese, non verranno ripristinati i livelli occupazionali precedenti la crisi anche quando la domanda globale sarà tornata robusta. Proprio perché le conseguenze della crisi sono, perlomeno in parte, strutturali e non solo congiunturali. Ne abbiamo, in queste settimane, tristi, tristissime conferme: il dimezzamento della forza-lavoro all’ex-Romagna Ruote, il fallimento dell’Igs, la difficilissima situazione dell’Oerlikon, il piano industriale di Berco che prevede il taglio permanente di 468 unità. Se questo è lo scenario che abbiamo di fronte, sul piano occupazione dobbiamo rispondere a questa semplicissima domanda: che ne facciamo della forza lavoro in esubero strutturale? Le caratteristiche di queste donne e di questi uomini – a cui ogni politico che si possa definire tale dovrebbe dedicare un pensiero almeno una volta al giorno – purtroppo non aiuta: si tratta mediamente di individui in un’età compresa tra i 40 e i 55 anni, con un livello di istruzione non elevato e precise caratteristiche formative nell’ambito della meccanica. La risposta alla domanda “che ne sarà di loro?” può avere soltanto tre declinazioni alternative: 1) li lasciamo al loro destino, a vagare tra liste di mobilità e lavoro nero 2) li scarichiamo sulle risorse pubbliche, magari attraverso il prepensionamento. La prima è una risposta che non appartiene ai valori di riferimento del nostro agire politico; la seconda è una risposta – utilizzata,nel corso dei decenni di storia repubblicana, sia dalla destra che dalla sinistra – semplicemente irresponsabile. Entrambe non sono parte del codice genetico del Partito Democratico. Rimane solo la terza risposta: fare della riqualificazione professionale il perno fondamentale di una stagione di politiche attive del mercato del lavoro, in questo caso provinciale ma ovviamente non solo. E’ un sentiero stretto e difficile quello in cui ci incamminiamo ora. Stretti tra due necessità, e tra due verità. Da un lato quello di riconoscere non solo i vincoli di natura finanziaria (di derivazione nazionale) e organizzativa (di derivazione regionale) ma anche la positiva azione svolta finora dall’Amministrazione Provinciale nell’ambito di questi vincoli; dall’altro, riconoscere che probabilmente il sistema abbisogna di un sovrappiù di coraggio, da trovare in un ambito prettamente ed esclusivamente politico. In un contesto come quello sopra descritto, la riqualificazione professionale dei lavoratori espulsi dai processi produttivi di vecchia generazione è questione troppo fondamentale per lasciare anche solo il minimo dubbio – magari infondato – che il sistema serva più ai formatori che non a coloro che devono essere formati o riqualificati. Che la componente di rendita da accaparrarsi a beneficio del proprio ente particolare, e di quello che ne sta attorno, sia preponderante rispetto alla funzione sociale ed economica della formazione professionale. Tale funzione infatti costituisce uno dei tratti fondamentali che definiscono l’efficienza di un sistema economico: far sì che i fattori produttivi – capitale e lavoro – siano il più possibile mobili attraverso i vari settori produttivi rende possibile non solo salvaguardia e l’utilizzo delle risorse stesse scongiurandone il sottoutilizzo, ma garantisce anche la dinamicità del sistema. E trattandosi di un tipico caso di esternalità positiva, e quindi di fallimento del mercato, tale funzione richiede un esplicito e inequivocabile intervento pubblico. Intervento pubblico da sostanziarsi sicuramente sotto forma di finanziamento; in questo frangente sicuramente non aiuta il progressivo svuotamento di risorse operato nell’ultimo anno in sede nazionale, spesso a vantaggio di politiche più tradizionali (e forse meno efficienti) di tutela nel mercato del lavoro. L’intervento pubblico è ammissibile certamente anche sotto forma di gestione diretta di un ente di formazione; a condizione tuttavia, che sia costantemente garantita la qualità e l’efficienza. Una tematica su cui le istituzioni locali già stanno, positivamente, ragionando.

Per onestà intellettuale, due considerazioni d’obbligo si impongono ora:

La prima riguarda la portata generale delle precedenti affermazioni, che deve essere trattata con cura, specialmente nel contesto ferrarese. Non si vuole certo affermare che un lavoratore cinquantenne a bassa qualificazione possa essere facilmente tramutato – mi si passi il termine – in un tecnico altamente specializzato nel trattamento delle acque o delle biotecnologie. Né si vuole negare un’ulteriore scomoda verità, e cioè che non tutti sono riqualificabili. Il nostro sistema economico non è (lascio a voi aggiungere un “purtroppo” o “per fortuna”) paragonabile ad esempio a quello americano, che recentemente ha portato agli onori della cronaca il caso di Kristin Saez, 26enne che lavorava in una scuola materna di Manhattan. Licenziata a causa di tagli d’organico, si è iscritta ad un corso di formazione specializzata in ambito sanitario, e dopo due settimane ha ricevuto due offerte di lavoro: prima in un ospedale del Bronx, poi come assistente tecnico al La Guardia community college nel Queens. Tutto questo mentre la disoccupazione a New York superava il dieci per cento.

La seconda considerazione è anch’essa d’obbligo, e può servire anche come “ponte” all’argomento successivo. Il mercato del lavoro – e quindi la formazione professionali ad esso rivolta – non è un pianeta a sé stante. Esso vive, e si trasforma, in relazione alla vita, e alle trasformazioni, del sistema economico di riferimento. Non si riforma il mercato del lavoro né i suoi istituti portanti senza tenere pienamente conto della direzione che intraprenderà, o che si vuole far intraprendere, l’economia. Ogni azione che si prefigge di ottimizzare il meccanismo formativo non può prescindere a un raccordo vero, reale e veloce di fabbisogni presenti e futuri del sistema economico. In altre parole, la domanda fatale che deve accompagnare un processo di riforma è “quali sono le figure professionali che l’economia ferrarese domanderà nei prossimi anni?”. O meglio: “considerata la strategia di sviluppo che l’economia ferrarese ha per i prossimi anni, quali sono i fabbisogni formativi conseguenti?” Senza questa domanda, e soprattutto senza la sua risposta, ogni azione seria di riforma o ottimizzazione del sistema di formazione professionale rischia di essere monca, o peggio ancora di non incidere realmente sulla funzionalità del sistema. In quest’ottica, ci si permetta di lanciare una domanda. Di questi tempi si parla molto di Green Economy; ne ha parlato – e con serietà e competenza – anche il Pd regionale con una bella iniziativa svolta proprio qui a Ferrara, e coordinata dall’on. Alessandro Bratti. Questa può allora essere l’occasione di implementare il raccordo appena descritto: fatto salvo l’avvio di un indirizzo preciso verso lo sviluppo (o l’attrazione) di attività imprenditoriali nel settore della green economy (una strategia che non può prescindere dal coinvolgimento del mondo del credito, anche locale), la presenza di personale appositamente formato (o meglio formando) diviene un vantaggio comparato di cui il territorio ferrarese può dotarsi. E’ possibile allora immaginare di indirizzare da subito parte del sistema di riqualificazione professionale verso quel tipo di fabbisogni, ovviamente prima precisamente individuati? Mi si permetta poi un ulteriore considerazione, al limite della provocazione. Il momento in cui è consigliabile smettere di parlare di Green Economy per cominciare a fare la Green Economy potrebbe arrivare prima di quanto pensiamo: è notizia di qualche giorno fa l’annuncio della costruzione da parte di SunEdison (il maggior operatore nordamericano nel settore) del più grande parco fotovoltaico d’Europa nella provincia di Rovigo, a pochi chilometri da qui, con un impatto occupazione diretto di 350 unità.

L’esempio della Green Economy, ovviamente, è solo indicativo; analogo ragionamento potrebbe essere fatto, ad esempio, per le aree di intervento dei Tecnopoli, di prossima attivazione (edilizia e costruzioni, ambiente, meccanica avanzata, scienze della vita). Se vogliamo che tali eccellenze nella ricerca applicata di derivazione universitaria – per cui la nostra Provincia è già all’avanguardia – si tramutino in veri e propri settori produttivi, occorre – tra le mille altre cose – orientare il sistema della riqualificazione professionali in modo conseguente.

C’è bisogno di un sistema moderno, rapido e snello in grado di intervenire da subito sui lavoratori anche in cassa integrazione per colmare i gap tra settori (presenti o futuri) in eccesso di domanda di lavoro e quelli in eccesso di offerta; tra questi ultimi, sicuramente la meccanica tradizionale, per cui è oggettivamente difficile motivare la chiamata di ulteriori bandi per attività formative.

In altre parole, e in conclusione di questo argomento, la ricetta generale non è difforme da quanto servirebbe in tutte le dimensioni dello spazio pubblico: le risorse non devono essere distribuite né a pioggia, né per finalità diverse da quelle del perseguimento dell’efficienza complessiva del sistema. Devono essere concentrate nei settori strategici, laddove sono più utili, e laddove producono gli effetti più coerenti con il progetto di sviluppo che una classe dirigente diffusa responsabile deve avere per il proprio territorio.

La seconda dimensione su cui vogliamo concentrare, in particolare, la riflessione odierna attiene al sistema imprenditoriale locale. Anche qui vi è una constatazione da cui partire: le realtà imprenditoriali di medie dimensioni sono le uniche che hanno retto la terribile onda d’urto della crisi; e, allargando l’orizzonte, dall’inizio del fenomeno della globalizzazione sono le realtà con le migliori performances rispetto non solo alla piccola ma anche alla grande impresa. La recentissima indagine di Unioncamere e Mediobanca dimostra che nel biennio della crisi (2008-2009) le medie imprese industriali (quelle cioè che hanno tra i 50 e i 499 dipendenti, e un fatturato tra i 13 e i 290 milioni di euro) hanno perso sia in termini di fatturato che in termini di margini considerevolmente meno rispetto alle altre realtà imprenditoriali (il 10% di fatturato contro una media del 40%, e un terzo dei margini contro una media superiore al 50%). Se guardiamo invece al periodo 1998-2007, per cogliere le dinamiche di lungo periodo, vediamo che le medie imprese vincono il confronto ovviamente con le piccole, ma anche con le grandi in termini di crescita del fatturato, del valore aggiunto, dei margini, degli investimenti, delle esportazioni, dell’occupazione e – sorprendentemente – in termini di solidità patrimoniale. Il confronto sulla redditività è più controverso unicamente perché le medie imprese sono in assoluto quelle più penalizzate dalla tassazione (un incredibile +22,6% in più di pressione fiscale rispetto alle grandi imprese), il che ci porterebbe ad aprire un proficuo dibattito sulla gestione della tassazione e della politica fiscale in questo paese. I dati confermano che sono le medie imprese ad avere la situazione patrimoniale migliore e più sana (sono le uniche che rispettano la regola aurea secondo cui i debiti servono a finanziare il capitale circolante, mentre gli investimenti sono in gran parte coperti dal patrimonio), e sono quelle in grado di posizionarsi maggiormente e più velocemente sul sentiero di offerta a più alto valore aggiunto. Vale a dire, se si vuole usare una parola brutta ma a mio avviso assolutamente cruciale per orientarsi nel dibattito – a volte confuso – in materia di politica industriale, sono le aziende che meglio riescono nel processo di terziarizzazione del manifatturiero di cui il nostro paese – e la nostra provincia – ha bisogno. Affermare infatti, come abbiamo fatto noi stessi all’inizio di questa relazione, che il contesto internazionale richiede il progressivo abbandono delle produzioni tradizionali e l’innesto di produzioni ad alto valore aggiunto non significa che domani mattina dobbiamo chiudere le nostre attuali realtà imprenditoriali e far diventare tutti produttori di biotecnologie molecolari spaziali. Questa è una caricatura che è utile solo a chi affronta tematiche di questo tipo in maniera superficiale e approssimativa. Si tratta di preservare l’enorme patrimonio della manifattura italiana, ma innervarlo di caratteristiche che sono più affini ai servizi, che non al tradizionale comparto industriale: qualità, branding, tecnologie, presenza sui mercati, espansione commerciale all’estero, fino alla decisa virata verso la vera e propria fornitura di servizi. Da qui, allora, la brutta parola: terziarizzazione del manifatturiero. I dati però ci dicono che solo le imprese con solidità patrimoniale, le medie imprese, stanno riuscendo a fare tutto ciò da quando – una quindicina di anni fa – noi tutti abbiamo iniziato a dirlo, e solo loro sono riuscite a tenere la testa fuori dall’acqua durante lo tsunami della crisi.

Se questa premessa è condivisa, allora l’orientamento non può che essere quello di indirizzare il sistema socio-economico verso l’irrobustimento della dimensione media delle realtà produttive. Non può sfuggire che questa considerazione è ancora più difficile all’interno di un sistema territoriale, come quello ferrarese, che storicamente sconta la mancanza di un vero e proprio sistema di piccole imprese caratterizzato da una certa solidità. Oltre ad un peso consistente dell’agricoltura, e a poche realtà di grandi dimensioni di proprietà spesso estera, il nostro panorama industriale è completato da una moltitudine di realtà micro-imprenditoriali o piccolissime operanti perlopiù in settori tradizionali. Alcuni comparti, come quello della subfornitura meccanica, sono stati letteralmente travolti dalla crisi. Questo vuol dire che nel ferrarese muovere il sistema verso il passo successivo, vale a dire il consolidamento del sistema dalla piccola ma solida dimensione a quella media è ancora più difficile. Oppure, in uno slancio di ottimismo, vuole semplicemente dire che le potenzialità di un percorso coordinato e di ampio respiro sono forse maggiori, perché si può iniziare un percorso senza eccessivi condizionamenti derivanti dalla retorica del “piccolo è bello” che, per tornare al filo conduttore di questa relazione, andava bene, benissimo prima della tempesta, ma non più ora.

Quello di cui stiamo parlando, dunque, è l’avvio di una strategia per elevare la dimensione media d’impresa nel nostro territorio. Una strategia che può comporsi di due step: il primo, viste le considerazioni precedenti sulla peculiarità del nostro territorio, non può che partire dallo sviluppo e consolidamento delle reti d’impresa, per mettere in contatto le realtà atomistiche che compongono il nostro tessuto industriale. Su questo punto non dirò altro, poiché una delle associazioni che abbiamo coinvolto nell’organizzazione di quest’iniziativa è attualmente impegnata (anche a livello regionale) in tale riflessione, quindi il suo direttore sarà in grado di portare un contributo indubbiamente migliore del mio. Il passo successivo, ma contestuale, si incentra sull’afflusso di capitale fresco nel nostro sistema industriale. A questo riguardo, vi sono in particolare due fronti da approfondire: il primo, forse più importante, è il ruolo che intende giocare la principale istituzione creditizia locale. Si tratta di un ruolo, se le considerazioni inerenti la “nuova stagione” devono essere propriamente interpretate anche in questo ambito, potenzialmente decisivo. Il secondo riguarda l’utilizzo di opportunità esterne al sistema ferrarese. Parliamo, essenzialmente, dello sfruttamento dei primi esperimenti di private equity (una realtà che esiste da decenni nel mondo anglosassone). Su base nazionale, dopo una gestazione di qualche mese che come Partito Democratico di Ferrara abbiamo seguito passo dopo passo proprio per la potenziale grande significatività dello strumento, l’altro ieri è stato ufficialmente costituito il Fondo Italiano d’Investimento (un miliardo di euro di dotazione iniziale, che diventeranno tre) mirato al rafforzamento patrimoniale e all’aggregazione delle piccole e medie imprese per vincere la sfida della crescita dimensionale. Il target è rappresentato dalle imprese con fatturato compreso tra i 10 e i 100 milioni di imprese (più o meno 15.000). E’ un bacino troppo ristretto. Nonostante la fase attuativa non inizierà prima dell’autunno, chiediamo da subito ai nostri parlamentari di intervenire (il fondo è partecipato dal Ministero del Tesoro in quanto il patrimonio iniziale proviene dalla Cassa Depositi e Prestiti) di attivarsi affinchè alle piccole e piccolissime imprese sia garantita la possibilità di candidarsi all’utilizzo di tale strumento. Ma esistono anche opportunità su base regionale. Qualche giorno fa è stato presentato un altro fondo di private equity, Npv Capital Partners, con una dotazione di 100 milioni di euro, rivolto alle piccole imprese emiliano-romagnole con buone prospettive di crescita ma troppo deboli dal punto di vista della dimensione e della capitalizzazione. Si tratta di un fondo molto piccolo, ma la strada non può che essere questa: la metà delle imprese emiliano-romagnole aventi un fatturato inferiore ai 5 milioni di euro (il 43,3% del sistema produttivo regionale) ha un patrimonio netto inferiore ai 15 mila euro. Solo il 5% del totale ha un patrimonio superiore al milione di euro. Si tratta di dati terrificanti. Ancora una volta, fotografano un contesto assolutamente adatto per il mondo che abbiamo alle spalle (prova ne sia il fatto che la nostra Regione è una delle più sviluppate nel continente europeo), ma che ora necessita di un forte intervento per essere competitivo nel nuovo mondo già iniziato.

In conclusione, il Partito Democratico di Ferrara ha ritenuto opportuno avviare una fase di riflessione mirata all’individuazione di quei tre-quattro fronti su cui è utile agire e su cui è possibile agire a livello locale. Non abbiamo scelto questa tempistica a caso. Siamo partiti qualche giorno prima del voto regionale, correndo tutti i rischi del caso, per sottolineare che solo il Partito Democratico in questa regione e in questa città ha il respiro e il passo giusto per candidarsi a gestire questa fase e quelle successive; una forza che deriva dalla solidità e dalla sicurezza del passato, e dal potenziale di idee, di dinamismo e di prospettive per il futuro. Ma vogliamo proseguire anche dopo il voto. Dapprima con un appuntamento interamente dedicato a quale assetto debba scegliere il territorio ferrarese in relazione ai gestori dei servizi pubblici locali, e successivamente con una riflessione su agricoltura, turismo e servizi. Dopo l’estate, inizierà un periodo di relativa calma elettorale (fatto salvo l’importante appuntamento rappresentato dal rinnovo di undici amministrazioni comunali nel territorio ferrarese), privo cioè di ansie e scadenze immediate che spesso tolgono respiro e prospettiva ai ragionamenti politici. Quei tre anni, speriamo non servano tutti, saranno la grande occasione per poter affrontare con tutta la serenità del caso un ragionamento serio sulle prospettive di sviluppo di questo territorio.

Durante le riunioni per la preparazione di quest’iniziativa, nell’analisi delle criticità attuali ne è emersa più volte quella che viene ritenuta probabilmente quella più importante: la tendenza da parte dei vari soggetti che compongono il panorama socio-economico a perpetuare comportamenti (e dinamiche) prettamente autoreferenziali, nel tentativo di preservare i propri posizionamenti relativi senza un disegno comune in grado di coordinare le dinamiche dei singoli gruppi. Spesso si faceva riferimento all’espressione “ognuno pensa soprattutto al proprio recinto”. Ad un certo punto un dirigente del PD ha innovato la metafora, sottolineando il concetto fondamentale con cui vogliamo chiudere. “Non sono sbagliati i recinti, né tantomeno la loro salvaguardia; l’importante è trovare dei luoghi dove possiamo pascolare insieme”. Qui sta il messaggio fondamentale che il Partito Democratico di Ferrara intende lanciare con questo appuntamento e con quelli che ne seguiranno, che non intendono certamente candidarsi ad essere l’unico terreno comune di pascolo, ma sicuramente uno di quelli. Servono infatti luoghi dove si possa immaginare una strategia di sviluppo multidimensionale, coerente e fatta di atti molto concreti, e in cui ognuno faccia la propria parte. Occorre comprendere che la stessa salvaguardia del proprio recinto è in pericolo se non si comincia a ragionare così; non basterà starne a guardia, non basterà fortificarlo: si rischia di essere travolti lo stesso. Poche ore fa, al telegiornale, guardavo i parlamentari del Partito Democratico americano festeggiare l’approvazione della storia riforma della sanità, scandendo in coro il celebre slogan “Yes we can” nell’emiciclo del congresso Usa. Guardando quelle immagini, non ho potuto evitare di pensare al coraggio politico dimostrato dal Presidente Obama. Due mesi fa ha rimediato una pesantissima batosta elettorale nella roccaforte democratica dello stato del Massachussets, perdendo il seggio elettorale che era stato di Ted Kennedy. In quel momento egli stava maneggiando una riforma di portata storica, osteggiata da potentissime lobby, gruppi di pressione, cittadini e persino nel suo stesso partito. Come si sarebbe comportato in quel frangente un politico italiano? Molto probabilmente si sarebbe fermato, in nome della sempre invocata cautela politica, e in nome della massimizzazione del consenso di breve, brevissimo periodo. Barack Obama invece è andato avanti, perché era convinto della intrinseca bontà di questa riforma e dei benefici di lungo periodo che avrebbe portato al popolo americano; ha scelto di correre il rischio, mettendo sull’altro piatto della bilancia l’orgoglio che deve aver provato nel rivolgersi ai suoi cittadini, una volta approvata la storica riforma, e dir loro che l’America è ancora capace di fare grandi cose. E’ questo il coraggio politico di cui abbiamo bisogno.

Qualcuno, probabilmente nostalgico di vecchie dinamiche, obietterà che si tratta di speculazioni intellettuali di qualche teorico, e che invece bisogna guardare al senso pratico di un mondo che ha sempre funzionato così e sempre così funzionerà. Mi si consenta allora, visto che ho aperto con una citazione di Keynes, di chiudere con la frase con cui il grande economista britannico chiuse il suo capolavoro, la “Teoria Generale” del 1936: “Gli uomini pratici, che si credono liberi da qualsiasi influenza intellettuale, di solito sono schiavi di qualche economista defunto”. Il rischio che corriamo, se non riconosciamo l’esigenza di un cambio di passo, è ritrovarsi schiavi di un intero sistema che è defunto senza che neanche noi ce ne accorgessimo.


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