“Palazzo dei Diamanti e la resa dell’Architetto” la nota di Tommaso Cristofori

30 Gennaio 2019
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Vorrei fare anche io alcune riflessioni rispetto alla vicenda del progetto per un nuovo padiglione da affiancare al Palazzo dei Diamanti.

Pensieri in libertà che non hanno nulla a che vedere con la strumentalizzazione politica che si è inevitabilmente creata intorno a questa iniziativa. Infatti, trovandoci alla vigilia di una campagna elettorale, molti hanno pensato di cavalcare il tema sperando di trarne un vantaggio in termini di consenso, altri invece intravvedendo la possibilità nel muro contro muro, di bloccare l’operazione già avviata da qualche anno.

Concordo con l’urbanista R. D’Agostino (su Artribune) quando rivendica che grazie alla lungimirante pianificazione introdotta negli anni ’70, oggi possiamo vantarci di un centro storico di assoluta qualità e bellezza e che questo si è realizzato proprio perché allora è stato concepito come “un organismo unico, un unico monumento, fatto di una gamma articolata di manufatti tutti necessari nella loro reciproca coerenza… che la conservazione dovesse essere morfologica e tipologica. In questa ottica la cultura architettonica contemporanea avrebbe potuto esercitarsi ed esprimersi nell’enorme bisogno di nuove costruzioni (erano gli anni dell’espansione edilizia) là dove potevano essere fatte, nel recupero delle aree edificate degradate o abbandonate, nella conservazione e ridisegno del paesaggio là dove fosse stato alterato, nell’intelligente opera di recupero e conservazione dei manufatti ereditati dalla storia”.

Una linea che può dirsi confermata anche con il successivo progetto di valorizzazione delle Mura e del sistema museale della città degli anni 80/90, che insieme all’addizione del parco urbano oggi ci consegna una città patrimonio UNESCO, riconoscimento di cui ci possiamo fregiare probabilmente proprio perché Ferrara ha saputo nella storia accogliere l’architettura moderna, di cui proprio il quadrivio ha rappresentato la massima espressione.

Questo palazzo non solo per la sua straordinaria importanza architettonica ed urbanistica, ma anche per la funzione acquisita negli anni con la presenza della galleria e della pinacoteca, è divenuto un brand di rilevanza internazionale. Immaginare quindi di spostare le mostre da questo luogo, la trovo una scelta decisamente sbagliata, per una realtà come la nostra.

Per semplificare, ignorando momentaneamente gli altri interventi previsti di risanamento sull’edificio esistente, tutti sanno che stiamo parlando di un nuovo padiglione che, come proposto nel progetto vincente, oltre ad avere una funzione espositiva, diventa l’elemento di congiunzione tra le due ali del palazzo, che ad Ovest confinano con uno spazio verde inutilizzato e dove con una certa evidenza, si nota l’opera incompiuta di una porzione non realizzata dell’edificio. Un’area che attualmente non ha alcun dialogo con la vita del palazzo, se non per la presenza di una passerella posticcia.

Inutile anche bisticciare sul concetto di reversibilità, è abbastanza ovvio che non stiamo parlando di un gazebo, ma il concetto di reversibilità si riferisce al fatto che la rimozione di questo padiglione, ed anche la sua installazione, non compromette né altera in alcun modo la struttura originaria esistente.

Non è vero come afferma l’amico architetto Andrea Malacarne che il Comune “crede di avere il diritto di modificarne in modo permanente l’aspetto”.

Invece, molto semplicemente, chi ha il compito di amministrare, insieme a Ferrara Arte, ha posto con quel concorso internazionale un quesito per trovare risposte ad esigenze di spazi e nuove funzioni, e lo ha fatto nel modo più corretto, collaborando fianco a fianco con chi è chiamato a tutelare un bene così importante. A chi si è rivolto? All’Architetto, cioè a colui che ha questo compito per competenza, cultura: colui che ha deciso per sua stessa missione di sfidare questi temi, esattamente l’opposto di una regressione culturale.

Sorvolando su come si è arrivati a questa bocciatura, che dovrebbe preoccupare molti, io penso che l’errore di chi ritiene non ammissibile quell’intervento, sia proprio nell’affermare di non voler affrontare la proposta progettuale risultata vincente, perché a priori non riconosce più per quello che è nella realtà il complesso museale Palazzo del Diamanti, ma diventa “l’oggetto Palazzo”, un’opera d’arte a sé, come se si trattasse un quadro di Caravaggio o La pietà di Michelangelo.

Quando si afferma che il vero nodo della vicenda è: si può fare o no, c’è bisogno o no? E contemporaneamente si dice: “Non è questione di giudicare se l’intervento è bello o brutto” (“il progetto vincente è anche bello” ammette anche Sgarbi) si perde di vista la proposta. È come se si volesse dare un giudizio su un’automobile, un paio di scarpe o di una barca, mentre invece stiamo parlando di uno spazio, di un luogo (vivo o morto); di un volume, che dialoga con l’intorno, che può valorizzare o mortificare quelle forme e quelle funzioni, che si relaziona o non si relaziona con gli spazi interni ed esterni, che può contribuire ad allungare o ad accorciare la sua vita, che esalta o ne riduce il suo ruolo non solo nel perimetro del palazzo, ma anche nel rapporto con tutta la città. Per questo non può essere considerato come un elemento autonomo.

È qui che cade il ragionamento, ed è proprio questo che rappresenta in un certo senso la sfida o la “resa” dell’Architetto, ma anche per un altro verso la sfida o la resa della Politica.

Oggi è sicuramente una occasione persa per la città. È di ieri la notizia che Vittorio Sgarbi ha denunciato sindaco e direttrice di Ferrara Arte, così, tanto per alimentare ancora il fuoco della polemica. Invito invece i ferraresi ad andare a vedere il corpo del reato esposto su dallo scalone municipale.

di Tommaso Cristofori, capogruppo PD Consiglio comunale di Ferrara


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